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23 dicembre 2022

Riflessione "papale papale"

 

RIFLESSIONE SUL PAPATO 

SULLA "RINUNCIA" DI S.S. BENEDETTO XVI
 

«Alla sapienza è stata resa giustizia da tutti i suoi figli» (Lc 7,35)
 

    La riflessione che proponiamo è stata stimolata da un articolo del prof. Silvio Barbaglia (biblista),[1] che per questo ringraziamo, ed è basata sostanzialmente sui canoni 331-335 del CIC e sul cap. VII della Costituzione Universi Dominici Gregis (1996) di Giovanni Paolo II.[2]

    Don Silvio ha il merito, a nostro avviso, di indicare dove effettivamente ha origine «la differenza oggettiva d’utilizzo da parte di Papa Benedetto XVI dei due termini munus e ministerium all’interno della sua Declaratio»

    Questo "luogo" è «quell’unico documento che regola la disciplina dell’elezione del Romano Pontefice: la Constitutio Apostolica Universi Dominici Gregis».  

    Analizzando il testo, il nostro biblista nota correttamente che la questione «va posta nell’articolazione di non due ma quattro termini presenti nella Universi Dominici Gregis e funzionali a qualificare l’identità del successore di Pietro. I termini sono: munus, officium, potestas e ministerium».

    Ora, continua l'articolo, «l’intreccio dei primi tre termini riferiti al Romano Pontefice impedisce una separazione tra di loro [...] l’intersezione di questi vocaboli mostra da subito l’impossibilità di scinderli anche solo in linea teorica». Il che vuol dire che possono essere trattati «in senso sinonimico».

    E fin qui non ci sono problemi.

    A questo punto rimane da affrontare il quarto e ultimo termine: ministerium.

    «Ciò che appare interessante e istruttivo - scrive don Silvio - è il fatto che solo al termine dell’intera Costituzione, dedicata a normare la situazione di "Sede vacante" e la relativa elezione del Romano Pontefice, emerga il termine più difficile da comprendere e cioè: ministerium».

    Su questo termine, propone una sua «esegesi canonistica»: «Ministerium - così scrive - non indica genericamente l’idea di un servizio, come è nel significato stesso della parola, ma va a designare la categoria fondamentale posta in essere nell’incipit dell’esito di elezione valida del successore di Pietro, ovvero il suo inizio nell’assunzione del munus, nell’esercizio della sua potestas e nell’esplicitazione del suo officium: tutto ciò è contenuto nell’espressione "initio ministerii novi Pontificis". Pertanto, la semantica del termine ministerium qui, contestualmente, riassume in sé il munus, la potestas e l’officium, appare come un termine inclusivo dei tre tra loro inscindibili. Se vale quest’esegesi canonistica si apre una nuova possibilità nell’intendere la genesi della scelta delle due parole nella Declaratio di Papa Benedetto XVI, riferita esattamente all’uso che ne fa la Costituzione Universi Dominici Gregis, atta a presentare l’immissione in ruolo, l’inizio del ministero di un Romano Pontefice».

    Ora, a nostro avviso non vale quest'esegesi canonistica. O meglio: vale nel senso che è plausibile venga da quel testo, la Universi Dominici Gregis, «la genesi della scelta delle due parole [munus e ministerium] nella Declaratio di Papa Benedetto XVI», ma non la «chiave di lettura» che di quel testo viene proposta.

    Perché affermiamo questo?

    Semplicemente perché, se veramente il ministerium «riassume in sé il munus, la potestas e l’officium», ci saremmo dovuti aspettare quel termine al significativo n. 53 della Universi Dominici Gregis dove abbiamo la formula di giuramento. E invece vi leggiamo che ogni cardinale è chiamato a promettere che, se eletto Romano Pontefice, «si impegnerà a svolgere fedelmente il munus Petrinum di Pastore della Chiesa universale»

    Perché non scrivere allora ministerium, se veramente questo termine riassume gli altri tre e, come afferma in una disputa sul web, «ne rappresenta la forma piena»?[3]

    E poi, anche ammesso (e non concesso) che ministerium, munus, potestas, officium siano, come afferma Barbaglia, «trattabili in senso sinonimico», perché Benedetto XVI non ha usato la parola indicata dalla Universi Domini Gregis? Se veramente uno vale l'altro, perché usarne uno diverso?

    Sarebbe bastato formulare la rinuncia utilizzando il termine adottato dalla Costituzione, vale a dire munus, e la questione sulla validità della rinuncia non si sarebbe mai posta.

    Forse saremo un po' presuntuosi, ma non ci sembra così difficile preparare una rinuncia indubbiamente valida avendo davanti agli occhi una manciata di canoni del CIC e la Costituzione Universi Domini Gregis.

    Se poi la Costituzione la prendiamo in mano, vediamo che il titolo del cap. VII non è "initio ministerii novi Pontifici" ma, significativamente, "de acceptatione, proclamatione et initio ministerii novi Pontifici". E infatti tratta:

1) dell’accettazione del Pontificato (se l’eletto è già vescovo acquista la potestà e può esercitarla. Il n. 91 dice espressamente che può decidere di prolungare il conclave).
2) della proclamazione al popolo e
3) dell’inizio del ministero con
«l'Apostolica Benedizione Urbi et Orbi».

    Dicendo che l'eletto, dopo l'accettazione, «acquista di fatto la piena e suprema potestà sulla Chiesa universale e può esercitarla», implicitamente afferma che tale potestà non è sempre in esercizio.

    In altre parole, che il ministerium petrino presupponga il munus petrino è cosa ovvia, ma nulla impedisce che chi ha il munus, e quindi la potestà, per vari motivi non lo eserciti.

    Per rimanere al testo della Costituzione, se un papa dovesse morire subito dopo l'accettazione non avrebbe fatto un solo atto di ministero, sarebbe cioè morto prima che il suo ministero inizi. 

    Non capiamo, pertanto, come si possa affermare che

    «il "munus" in quanto tale va esercitato, l'esercizio sta nella natura del "munus" in quanto non si tratta di un titolo... e anche quando sembra non essere esercitato, lo è di fatto in quanto ha "potestas" sulla Chiesa universale... e come può essere sempre congiunto nella comunione con gli altri vescovi e con tutta la chiesa (CDC can. 333 § 2) se non nell'esercizio del suo "munus Petrinum"? Esercizio non vuol dire solo occuparsi di cose da fare ma permettere alla dimensione spirituale di agire ... questo è l'esercizio del "munus petrinum" attraverso lo Spirito, ma di esercizio sempre si tratta... Il titolo invece è "Romano Pontefice" o "Sommo Pontefice"...».[4]

    Lasciando da parte il fatto che soltanto in Dio essere e operare si identificano, se andiamo a leggere con attenzione il canone del CIC citato, si vede che al 333 § 1 si dice chiaramente che il Romano Pontefice «in forza del suo ufficio (sui muneris), ha potestà...» = ESSERE PAPA.
    Al successivo 333 § 2, invece, si passa all'esercizio dell'ufficio (in munere explendo)  = OPERARE IN QUANTO PAPA.

     In quest'ultimo paragrafo si premette che ciò che è sempre "in esercizio" è soltanto il munus, la potestà, che rende il Romano Pontefice «sempre congiunto nella comunione con gli altri Vescovi e anzi con tutta la Chiesa» (CIC, can. 333 § 2). L'esercizio di tale munus, tuttavia, cioè il modo di esercitarlo, sia personale sia collegiale, lo determina il Romano Pontefice secondo le necessità della Chiesa.

    Il CIC sembra molto chiaro. La potestà (se l'eletto è già insignito del carattere episcopale) la ottiene «dal momento dell’accettazione» (can. 332 § 1) e la «può sempre esercitare liberamente» (can. 331). E potremmo qui aggiungere che Benedetto XVI, “liberamente”, non la sta esercitando.

    Al can. 332 § 2 è poi scritto:
«Nel caso che il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio (Si contingat ut Romanus Pontifex muneri suo renuntiet) si richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non si richiede invece che qualcuno la accetti».

    Se quindi domandiamo: a cosa deve rinunciare il Romano Pontefice se vuole lasciare l’ufficio di supremo Pastore? Al ministero? No. Questo certo lo può fare liberamente, come sopra abbiamo visto, ma in tal caso rimarrebbe Sommo Pontefice.
    E perché la rinuncia sia valida, basta forse rinunciare in qualunque modo, anche raffazzonato, oppure la rinuncia al munus deve essere debitamente manifestata? La risposta è ovvia.

    Da notare, poi, che il papato non è un sacramento; e proprio per questo se uno rinuncia al papato non può più chiamarsi papa, perché del papato non rimane nulla dopo una valida rinuncia. Se il papato fosse un sacramento, invece, allora si potrebbe parlare di papa emerito così come si parla di vescovo emerito.

    Un vescovo, infatti, si dice emerito quando, una volta che viene accettata la sua rinuncia all'ufficio, non ha più la giurisdizione sulla sua diocesi. Di quest'ultima, però, mantiene il titolo di vescovo emerito.

    Ciò è possibile perché la consacrazione episcopale (l'essere vescovo) non viene meno venendo meno la giurisdizione sulla sua diocesi.

    Pertanto, quello che oggettivamente dice l'uso del titolo di papa emerito è che Benedetto XVI ha mantenuto l'essere papa (il munus Petrinum), ma è un papa che rinuncia all'esercizio attivo della sua potestà.

    Se così non fosse, se cioè si ritenesse che papa Benedetto abbia realmente rinunciato al papato, il titolo di "papa emerito" sarebbe ingiustificabile.

    Ma c'è di più.

    Benedetto XVI non si è limitato ad attribuirsi il titolo di "papa emerito" rifiutando espressamente quello, non problematico per un papa realmente rinunciatario, di "vescovo emerito di Roma". Se si fosse limitato a fare questo, infatti, potrebbe essere giustamente accusato, in base al can. 333 § 2 del CIC, di non adempire al suo ufficio di supremo Pastore della Chiesa. Sarebbe un papa, cioè, fuggito davanti ai lupi.

    E così egli ha anche aggiunto che in realtà non è fuggito dai lupi perché tale ministero in parte lo esercita ancora. Dunque, anche se in modo nuovo e inedito, sta adempiendo al suo ufficio.

    «Sono ben consapevole - così scrive nella declaratio - che questo munus, per la sua essenza spirituale, deve essere compiuto non solo con le opere e con le parole, ma non meno soffrendo e pregando. Tuttavia, nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministerium a me affidato. Per questo, ben consapevole della gravità di questo atto, con piena libertà, dichiaro di rinunciare al ministerio di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro, a me affidato per mano dei Cardinali il 19 aprile 2005».

    Benedetto XVI ha dunque liberamente rinunciato ad esercitare solo una parte del suo ministero, che possiamo chiamare attivo, e lo ha fatto con la consapevolezza chiara della gravità del suo atto.

    D'altronde, sappiamo con certezza che il card. Ratzinger ha accettato il papato con la consapevolezza che avrebbe dovuto combattere contro i lupi e assolutamente non fuggire, per paura, davanti a loro.[5]

    Non aggiungo altre note, ma, ormai prossimi al Natale, auguro a tutti ogni bene e l'invito a continuare a pregare umilmente il Padre nostro di non indurci in tentazione, cioè di non sottoporci alla prova, perché «le nostre forze sono limitate» Liberaci, Signore, dal male.

 


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[1] https://www.aldomariavalli.it/2022/12/20/il-codice-ratzinger-non-esiste/ 

[2] https://www.vatican.va/content/john-paul-ii/la/apost_constitutions/documents/hf_jp-ii_apc_22021996_universi-dominici-gregis.html

[3] https://gloria.tv/post/2wbY1ekgFmWsA6M826TqSMZfi

[4] Ivi.

[5] https://www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/homilies/2005/documents/hf_ben-xvi_hom_20050424_inizio-pontificato.html

 

 

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