GLI APOSTOLI
(terza parte)
66. «Ti saluto, Maestro. Sono Giuda di Keriot. Non mi riconosci? Non ricordi?». «Ricordo e riconosco. Sei quello che qui mi hai parlato con Tommaso, la scorsa Pasqua».
«Perché... te l’ho detto dall’altra volta il perché. Perché io sogno il regno d’Israele e re ti ho visto». «Per questo vieni?».
«Con te è tutto rispetto».
«Troppo rispetto. Anche con Te è tutto rispetto. Ma non è per Te Maestro; è per Te futuro Re, da cui spera utile e lustro. Era un nulla, appena un poco da più degli altri a Keriot. Spera di avere al tuo fianco un ruolo di importanza e... oh! Gesù, non voglio offendere la carità, ma penso, anche se pensare non lo voglio, che in caso che Tu lo deluda egli non esiterà a sostituirsi a Te, a cercare di farlo. È ambizioso, avido e vizioso. Più adatto ad essere cortigiano di un re terreno che un apostolo tuo, Figlio mio. Mi fa paura!». E la Mamma guarda il suo Gesù con due occhi sgomenti nel viso pallido. […]
«Non ho paura di Levi. Egli si è redento perché si è voluto redimere. Ha lasciato il suo peccato insieme al suo banco di gabelliere e si è fatto un’anima nuova per venire con Te. Ma Giuda di Keriot no. Anzi l’orgoglio fa sempre più sua la sua vecchia anima brutta. Ma Tu le sai queste cose, Figlio. Perché me le chiedi? Io non posso che pregare e piangere per Te. Tu sei il Maestro. Anche della tua povera Mamma».
«Figlio, sono io... Ascoltami!».
«Oh! Mamma! Vieni a pregare con Me? Che gioia, che sollievo mi dai!».
«Che, Figlio mio? Sei affaticato nello spirito? Triste? Dillo alla tua Mamma!».
«Affaticato, lo hai detto, e afflitto. Non tanto per la fatica e le miserie che vedo nei cuori, quanto per l’immutabilità di quelli che sono i miei amici. Ma non voglio essere ingiusto con loro. Uno solo mi
affatica. Ed è Giuda di Simone...».
«Figlio, di lui venivo a parlarti...».
«Ha fatto del male? Ti ha dato dolore?».
«No. Ma mi ha fatto la pena che avrei vedendo uno molto infetto... Povero figlio! Quanto è malato nel suo spirito!».
«E tu ne hai pietà? Non ne hai più paura? Un tempo l’avevi...».
«Figlio mio, la mia pietà è ancora più grande della mia paura. E vorrei aiutare Te e lui a salvare il suo spirito. Tu tutto puoi e non hai bisogno di me. Ma Tu dici che tutti devono cooperare col Cristo nel
redimere... e questo figlio è così bisognoso di redenzione!».
«Che devo fare più che non faccia per lui?».
«Tu non puoi fare di più. Ma potresti lasciarmi fare. Egli mi ha pregata di lasciarlo sostare nella nostra casa, perché gli pare che là potrà liberarsi dal suo mostro... Tu scuoti il capo?
Non vuoi? Glielo dirò...».
Anche la buona madre di Giuda, Maria di Simone di Keriot, continuamente soffre e prega per il figlio e, dopo il tradimento, la troviamo irriconoscibile tanto è sfigurata dall’angoscia. Gesù risorto le appare:
Gesù è nella stanza, che un tremulo lume rischiara perché troppo poca ancora è la luce del giorno per illuminare la stanza vasta, nella quale il letto è nel fondo, molto lontano dall’unica finestra. Chiama dolcemente: «Maria! Maria di Simone!».
La donna è quasi delirante e non dà peso alla voce. È assente, rapita nei gorghi del suo dolore, e ripete le idee che ossessionano il suo cervello, monotonamente, come il tic tac di un pendolo: «La madre di Giuda! Cosa ho partorito? Il mondo urla: “La madre di Giuda”...».
Gesù ha due lacrime nell’angolo degli occhi dolcissimi. Mi stupiscono molto. Non pensavo che Gesù potesse piangere ancora dopo che è risorto...
Si curva. Il letto è così basso, per Lui così alto! Pone la Mano sulla fronte febbrile, respingendo le pezze umide d’aceto, e dice: «Un’infelice. Questo e non altro. Se il mondo urla, Dio copre l’urlo del mondo dicendoti: “Abbi pace, perché Io ti amo”. Guardami, povera mamma! Raccogli il tuo spirito smarrito e mettilo nelle mie mani. Sono Gesù!...».
Maria di Simone apre gli occhi come uscendo da un incubo e vede il Signore, sente la sua Mano sulla sua fronte, porta le mani tremanti al viso e geme: «Non mi maledire! Se avessi saputo cosa generavo, mi sarei strappate le viscere per impedire che egli nascesse».
«E avresti peccato. Maria! oh! Maria! Non uscire dalla tua giustizia per la colpa di un altro. Le madri che hanno fatto il loro compito non devono tenersi responsabili del peccato dei figli. Tu lo hai fatto il tuo dovere, Maria. Dammi le tue povere mani. Sii quieta, povera mamma».
«Sono la madre di Giuda. Immonda sono come tutto ciò che quel demonio toccò. Madre di un demonio!
Non mi toccare». Si dibatte per sfuggire alle Mani divine che la vogliono tenere.
La pietà amorosa dei suoi fulgidi occhi accarezza, fascia, medica l’infelice, che si calma piangendo tacitamente e mormorando: «Non m’hai rancore?».
«Ho amore. Sono venuto per questo. Abbi pace». «Tu perdoni! Ma il mondo! Tua Madre! Mi odierà». «Ella pensa a te come a una sorella. Il mondo è crudele. È vero. Ma mia Madre è la Madre dell’Amore, ed è buona. Tu non puoi andare per il mondo, ma Ella verrà a te quando tutto sarà in pace. Il tempo pacifica...».
«Fammi morire, se mi ami...».
La adagia dolcemente, le incrocia le mani, la guarda calmarsi...
Ha una grande somiglianza con Giuseppe di Nazaret.
99. [Dice Giacomo:] «No, cugino. Non siamo eroici come i tuoi pastori...».
I cugini crollano il capo.
Sempre a proposito della sua somiglianze con Giuseppe:
253. Anche Giacomo, in mezzo a Maria d’Alfeo e Susanna, parla del Carmelo. Dice a sua madre: «Gesù mi ha promesso di salire lassù solo con me e di dirmi una cosa, a me soltanto».
«Che ti vorrà dire, figlio? Me la ripeti poi?».
«Mamma, se è un segreto non te lo posso dire», risponde sorridendo del suo sorriso così affettuoso Giacomo, la cui somiglianza con Giuseppe sposo di Maria è molto sensibile nei tratti e ancora più nella pacata dolcezza.
Come promesso, Gesù lo conduce sul monte Carmelo e lì gli confida che sarà l’unico apostolo a rimanere a Gerusalemme dopo la passione.
«Giacomo, fratello mio, sai perché ti ho voluto qui, da solo a solo, per parlarti dopo ore di preghiera e meditazione?».
Giacomo pare faccia fatica a rispondere, tanto è commosso. Ma infine apre le labbra per rispondere a bassa voce: «Per darmi una lezione speciale, o per il futuro o perché io sono il più incapace di tutti. Ti ringrazio fino da ora, anche se è un rimprovero. Ma credi, Maestro e Signore, che se io sono tardo e incapace è per deficienza, non per mala volontà».
«Non è un rimprovero ma una lezione, questa sì, per il tempo in cui Io non sarò più con voi. […] Non avere paura, Giacomo. Io non voglio la tua rovina. Perciò, se a questo Io ti destino, è segno che so che da essa non danno, ma soprannaturale gloria ne avrai. Ascoltami, Giacomo. Fai in te la pace, con un bell’atto di abbandono in Me, per potere udire e ricordare le mie parole. Mai più saremo così soli e con lo spirito così preparato ad intenderci.
Io me ne andrò un giorno. […] Giacomo, tutti saranno dispersi fuorché tu, e ciò sino alla chiamata di Dio al suo Cielo. Tu resterai al posto a cui ti avrà eletto Dio per bocca dei fratelli, tu discendente della stirpe regale, nella città regale, ad alzare il mio scettro ed a parlare del vero Re. […]
«Non posso, non posso, Signore! Dàllo a mio fratello questo compito. Dàllo a Giovanni, dàllo a Simon Pietro, dàllo all’altro Simone. Non a me, Signore! Perché a me? Che ho fatto per meritarlo? Non vedi che sono un ben povero uomo con una capacità sola: quella di volerti tanto bene e di credere fermamente a tutto quanto Tu dici?».
«Giuda ha un temperamento troppo forte. Andrà molto bene dove c’è da abbattere il paganesimo. Non qui dove è da convincere al cristianesimo coloro che per essere già popolo di Dio si credono nel giusto ad ogni costo. Non qui dove è da convincere tutti coloro che pur credendo in Me saranno delusi dallo svolgimento degli avvenimenti. […]
E tu sarai circondato da fanatici. Fanatici fra i cristiani, fanatici fra gli israeliti. I primi vorranno da te atti di forza o il permesso, almeno, di compierli. Perché il vecchio Israele, con le sue intransigenze e le sue restrizioni, sarà ancora agitante in essi la sua coda venefica. I secondi marceranno contro te e gli altri come per una guerra santa in difesa della vecchia Fede, dei suoi simboli, delle sue cerimonie. E tu sarai al centro di questo mare in tempesta. Tale è la sorte dei capi. E tu sarai il capo di quanti saranno della Gerusalemme cristianizzata dal tuo Gesù. […]
Tu mi sei parente. Dopo avermi... dopo avermi misconosciuto, la parte migliore di Israele cercherà di avere perdono presso Dio e presso se stessa col cercare di conoscere il Signore che avranno maledetto nell’ora di Satana, e parrà loro di avere perdono, e perciò forza di mettersi nella mia via, se sarà al mio posto uno del mio sangue. […]
Di Matteo riportiamo la chiamata da parte di Gesù.
94. Proprio sul limitare della porta della sinagoga vedo il futuro apostolo Matteo. Se ne sta lì, mezzo dentro e mezzo fuori, non so se vergognoso o se seccato da tutti gli ammicchi di cui è fatto segno e anche da qualche epiteto poco piacevole che gli viene indirizzato. Due impaludati farisei raccolgono studiatamente i loro ampli manti, come avessero paura di raccattare la peste sfiorando con essi il vestimento di Matteo.
Gesù, entrando, lo fissa per un attimo e per un attimo sosta. Ma Matteo china il capo e basta.
Pietro, appena passati oltre, dice piano a Gesù: «Sai chi è quell’uomo arricciato, profumato più di una femmina? È Matteo, il nostro esattore... Che ci viene a fare qui? È la prima volta. Forse non ha trovato i compagni, e le compagne soprattutto, con i quali passa il sabato, spendendo in orgie quel che ci succhia in tasse duplicate e triplicate per averne per il fisco e per il vizio».
«Ebbene, Io andrò a mettervi benedizioni. Chissà che un poco di onestà non entri nel gabelliere». «Stai pure tranquillo che la tua parola non passerà per la sua pelle di coccodrillo».
«Dirai che è ladro tanto chi assalta sulle strade come chi scortica i poveri che lavorano per avere il pane, non per le femmine e le ebbrezze?».
«Pietro, vuoi parlare tu per Me?».
Sono giunti presso al banco della gabella. Pietro fa per pagare. Gesù lo ferma e dice: «Dammi le monete. Pago Io, oggi». Pietro lo guarda stupito e poi dà una borsa di pelle con dei soldi.
Gesù aspetta il suo turno e, quando è di fronte al gabelliere, dice: «Pago per otto corbe di pesce di Simone di Giona. Le corbe eccole là, ai piedi dei garzoni. Verifica, se credi. Ma fra onesti non dovrebbe che bastare la parola. E credo tu mi creda tale. Quanto è la tassa?».
Matteo, che era seduto al suo banco, al punto in cui Gesù dice: «Credo che tu mi creda tale», si alza in piedi. Basso e già anzianotto, su per giù come Pietro, mostra però il viso stanco del gaudente ed una palese confusione. Sta a capo chino sul principio, poi lo alza e guarda Gesù. E Gesù lo guarda fisso, serio, dominandolo con tutta la sua imponente statura.
«Quanto?», ripete Gesù dopo un poco.
«La porto in Me, perché raccolgo i peccatori. Ma tu... perché non la curi?». E Gesù gli volge le spalle subito dopo, tornando a Pietro che è trasecolato di stupore. Anche altri sono trasecolati. Bisbigliano, ammiccano...
Gesù si pone addossato ad un albero, a un dieci metri da Matteo, e inizia a parlare.
[…]
Gesù ha finito. Se ne va senza neppure voltarsi verso Matteo, che è venuto presso il cerchio degli ascoltatori sin dalle prime parole.
96. Gesù scende dalla barca e passa fra la folla che gli si accalca intorno. All’angolo di una casa è ancora Matteo che ha ascoltato da lì il Maestro, non osando di più. Giunto a quell’altezza, Gesù si ferma e, come se benedicesse tutti, benedice ancora una volta, guarda Matteo e poi se ne va di nuovo fra il gruppo dei suoi, seguito dal popolo, e scompare in una casa.
97. Ancora la piazza del mercato di Cafarnao. Ma in un’ora più calda, in cui il mercato è già finito e sulla piazza sono solo degli sfaccendati che parlano e dei bambini che giuocano. […]
Gesù va diritto verso il banco delle gabelle, dove Matteo sta tirando i suoi conti e verificando le monete, che suddivide per categorie, mettendole in sacchetti di diverso colore e collocandoli in un forziere di ferro, che due servi attendono di trasportare altrove.
Appena l’ombra gettata dall’alto corpo di Gesù si allunga sul banco, Matteo alza il capo per vedere chi è il ritardatario pagatore. Pietro, intanto, dice, tirando Gesù per una manica: «Non c’è nulla da pagare, Maestro. Che fai?».
Ma Gesù non gli dà retta. Guarda fisso Matteo, che si è subito alzato in piedi con atto reverente. Un altro sguardo trapanante. Ma questo non è lo sguardo del giudice severo dell’altra volta. È uno sguardo di chiamata e di amore. Lo avviluppa, lo satura di amore. Matteo diventa rosso. Non sa che fare, che dire...
«Matteo, figlio di Alfeo, l’ora è suonata. Vieni. Seguimi!», impone Gesù maestosamente. «Io? Maestro, Signore! Ma sai chi sono? Per Te, non per me lo dico...».
«Oh! subito, mio Signore!» e Matteo, piangente, esce da dietro il banco, senza neppur occuparsi di raccogliere le monete sparse sul banco, di chiudere il cofano. Nulla.
«Dove andiamo, Signore?», chiede quando è presso a Gesù. «Dove mi porti?».
«Io ascolto quel che si dice in Cielo, e là si dice: “Gloria a Dio per un peccatore che si salva!”, e il Padre dice: “In eterno la Misericordia si alzerà nei Cieli e si librerà sulla Terra e, poiché di un eterno amore, di un perfetto amore Io ti amo, ecco che anche a te uso misericordia”. Vieni. E, con la mia venuta, oltre che il cuore ti si santifichi la casa».
«Già purificata l’ho, per una speranza che avevo nell’anima mia... ma che la ragione non poteva credere che fosse vera...
Oh! io coi tuoi santi...», e guarda i discepoli. «Sì. Coi miei amici. Venite. Vi unisco. E siate fratelli».
Entrano in casa. Una bella casa dal largo portone che si apre sulla via. Un bell’atrio ombroso e fresco, oltre il quale si vede un ampio cortile messo a giardino.
«Entra, Maestro mio! Portate acqua e bevande».
«Tu la lavavi col pentimento e con la carità. Per Me e per il prossimo. Pietro? Vieni qui».
«Pietro, tu mi hai chiesto tante volte chi era lo sconosciuto della borsa portata da Giacomo. Eccolo, lo hai di fronte».
«Chi? Questo lad... Oh! perdona, Matteo! Ma chi lo poteva pensare che eri tu? e che proprio tu, nostra disperazione per la tua usura, fossi capace di strapparti tutte le settimane un pezzo di cuore dando quel ricco obolo?».
«Lo so. Vi ho ingiustamente tassati. Ma ecco, io mi inginocchio davanti a voi tutti e vi dico: non mi cacciate! Egli mi ha accolto. Non siate da più di Lui nella severità».
Pietro, che si trova ai piedi Matteo, lo alza di colpo, di peso, rudemente e affettuosamente: «Su, su. Non a me né agli altri. A Lui chiedi perdono. Noi... va’ là, su per giù siamo tutti ladri come te... Oh! l’ho detto! Maledetta lingua! Ma sono fatto così: quel che penso dico, quel che ho in cuore ho sul labbro. Vieni, che facciamo patto di pace e di amore», e bacia sulle guance Matteo.
Anche gli altri lo fanno, più o meno affettuosamente. Dico così perché Andrea è sostenuto, per la sua timidezza, e Giuda Iscariota è gelido. Pare che abbracci un fascio di rettili, tanto il suo abbraccio è scostante e breve.
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