14 marzo 2024

Critica alla critica radaelliana

 

CRITICA ALLA CRITICA RADAELLIANA 

A SPE SALVI DI BENEDETTO XVI


    Scriviamo questo post perché ci siamo imbattuti in questo articolo del prof. Radaelli in cui egli prende espressamente di mira i numeri 45, 46 e 47 dell'Enciclica Spe salvi.
 
    Secondo tale autore, essi veicolano una «Teodicea imperniata su tre niente: niente Inferno, niente Purgatorio e niente peccato come 'offesa a Dio'» (p. 1). Sarebbe dunque Benedetto XVI la fonte della «più dannosa delle infezioni: tutti ora ne sono contagiati, da Papa Francesco all'ultimo dei fedeli senza che però nessuno di essi sappia individuare la fonte da dove sgorga con incontrollabile irruenza il veleno che li strangola alla foce» (p. 1).
 
    Si tratta di un giudizio molto pesante, ma corrisponde a verità?
    No, nel modo più assoluto. Ma vediamo come procede il Radaelli.
 
    La prima e più grave lacuna che egli ravvisa in quei numeri della Spe salvi sarebbe il non parlare mai di peccato come 'offesa a Dio'.
    Ora, che l'espressione non compaia è vero, ma perché mai questo dovrebbe significare che Benedetto XVI vuole annientare tale nozione?
    Radaelli non dice dove si può ricavare tale volontà annientatrice, ma semplicemente afferma che tale espressione non c'è nella «pericope dove invece più facilmente si sarebbe dovuta riscontrarne la presenza» (p. 5).
    In altre parole, al prof. Radaelli sarebbe piaciuto incontrarla in quella pericope e, non trovandola, ha pensato il peggio. 
 
    Ma era veramente doveroso inserirla?
    No, oggettivamente non vi era alcuna necessità ed è pretestuoso leggere il non inserimento come una chiara volontà di annientamento.

    Per Radaelli, invece, «il Papa che è stato ed è da tutti ancora riverito come il “Papa Teologo” non ne parla mai, mentre è proprio questo il concetto che definisce un atto ‘peccato’: l’essere esso un atto il cui effetto è offendere Dio, come dice il Profeta: Contro di te, contro te solo ho peccato. Quello che è male hai tuoi occhi io l’ho fatto (Sal 50,6). Se non c’è offesa a Dio, nessun atto di nessun uomo è mai peccato» (p. 4).

    Praticamente una bella lezioncina, a dire il vero non rara nel mondo quasi completamente capovolto in cui ci troviamo.

    Eppure non occorrono grandi sforzi per scoprire che Benedetto XVI insegna che «alla radice del peccato sta la menzogna, il rifiuto della verità. "La disobbedienza, come dimensione originaria del peccato, significa rifiuto di questa fonte [= legge eterna], per la pretesa dell'uomo di diventare fonte autonoma ed esclusiva nel decidere del bene e del male» (Dominum et vivificante, 36)» (J. Ratzinger Benedetto XVI, Giovanni Paolo II. Il mio amato predecessore, San Paolo 2007, p. 41). Lo stesso Catechismo della Chiesa Cattolica, utilizzato nel corso dell'articolo "contro" Benedetto XVI, riporta la definizione di peccato come «una parola, un atto o un desiderio contrari alla Legge eterna» (CCC, n. 1849) e perciò «un'offesa a Dio» (CCC, n. 1871).
    Benedetto parla anche di
«corruzione degli uomini cattivi, perché in ribellione contro Dio, nella strada dell'autonomismo, del "diventerete come Dio"» (J. Ratzinger, Il cammino pasquale, Ancora 2000, pp. 38-39). Ma anche in Spe salvi n. 36 aveva già ricordato che «eliminare il potere del male, della colpa [...] potrebbe realizzarlo solo Dio: solo un Dio che personalmente entra nella storia facendosi uomo e soffre in essa». Solo Dio può perdonare il peccato perché è lui l'offeso. Di criticabile c'è semmai l'apparente necessità assoluta dell'incarnazione, ma non la nozione di peccato.

    Radaelli aggiunge anche che tale "omissione" «è necessaria al Teologo per poter rigettare la Redenzione operata dal Cristo come 'sacrificio di Olocausto', la nozione cattolica che più va di traverso all'Autore di Spe salvi per il suo carattere a suo avviso oltremodo "crudele"» (p. 4).
    In realtà, però, tale affermazione sembra scontrarsi con le parole dell'Autore di Spe salvi che parla espressamente «del grande mistero dell'espiazione» (J. Ratzinger Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Rizzoli 2007, p. 191) mostrando quanto sia difficile per la "cultura" attuale comprenderlo. «L'uomo di oggi - scrive in un altra opera - non capisce più immediatamente che il Sangue di Cristo sulla Croce è stato versato in espiazione dei nostri peccati. Sono formule grandi e vere, e che tuttavia non trovano più posto nella nostra forma mentis e nella nostra immagine del mondo; che devono essere per così dire tradotte e comprese in modo nuovo» (Benedetto XVI, Luce del mondo, LEV 2010, p. 192).

    Il secondo insegnamento di Benedetto XVI sarebbe poi per Radaelli quello di annientare la certezza della pena. 
    Perché questa accusa? Perché al n. 45 usa «il condizionale e non un deciso indicativo» (p. 5). Ora, se ci si limita a leggere i testi riportati dal prof. Radaelli si potrebbe effettivamente avere una tale idea, ma non se si legge anche quanto egli omette di riportare. Leggendo il discorso per intero, infatti, si può vedere che non «siamo ex post il Giudizio universale, quando i destini sono stati decisi» (p. 5), e che il condizionale è dettato dalla preoccupazione di non mettersi al posto di Dio. Benedetto XVI fa infatti riferimento a «figure della stessa nostra storia» e discerne che da come esse si sono comportate sembrerebbe che la loro sorte possa essere l'inferno. Il che, tra l'altro, è un modo per ricordare che l'inferno è una possibilità concreta.
 
    Il terzo insegnamento di Benedetto XVI sarebbe poi niente meno che quello di annientare quell'inferno che ha appena finito di ricordare essere una concreta possibilità per gli uomini.
    Secondo Radaelli è addirittura il CCC che «si allontana decisamente dal concetto affermato dal Papa nel 2007 nella sua Lettera universale, senza contare che ai numeri successivi fornisce ulteriori e ben chiare informazioni sull'Inferno come luogo di pene definitive e perenni, sulla natura di tali pene, sulla loro consistenza materiale e spirituale e sulla loro perpetuità» (p. 6). Al che ci viene da chiedere: ma Radaelli conosce il ruolo che ha avuto il card. Raztinger nella stesura di quel Catechismo? Pensa forse che egli non sia d'accordo con quelle verità? Ma, soprattutto, non sarà forse che il motivo per cui il CCC tratta con una certa sistematicità tutti i vari aspetti sia dovuto proprio al fatto che ciò è quanto si richiede ad un catechismo? 
    Ora, la Spe salvi non è un catechismo e nemmeno una Teodicea («è questa la Teodicea di Papa Ratzinger?» - p. 5), ma un'enciclica sulla speranza che dovrebbe essere presa per quello che è e vuole essere. Criticarla sulla base della sua non corrispondenza rispetto a quanto ci si aspetta di trovare in essa non mi pare che abbia molto senso.
    Chissà, forse potrebbe essere questo uno dei motivi per cui nessuno degno di nota prende in considerazione tali critiche.
 
    Ma Radaelli continua sicuro.
 
    Il quarto insegnamento di Benedetto XVI in Spe salvi è l'annientamento del Paradiso, cioè dell'eternità. 
    Ma dove lo legge questo annientamento? Ora, che di J. Ratzinger possa non piacere lo stile è cosa lecita, ma dove sono tutti questi annientamenti, tutte queste problematiche vere e gravi? Benedetto XVI parla qui delle persone pie e dei beati come persone purissime, che si sono lasciate interamente penetrare da Dio e di conseguenza sono totalmente aperte al prossimo – persone, delle quali la comunione con Dio orienta già fin d'ora l'intero essere e il cui andare verso Dio conduce solo a compimento ciò che ormai sono.
    Un testo che, al di là di quanto ciascuno lo trovi piacevole o meno, è pienamente cattolico. Per Radaelli è invece vago perché «non dice che le attende il Regno dei Cieli, il Paradiso» (p. 7). L'espressione finale (il cui andare verso Dio conduce solo a compimento ciò che ormai sono) è dal professore considerata una «vaga, estremamente impalpabile ed estremamente inconsistente perifrasi» (p. 7). Egli la ritiene indeterminata, nebulosa e arriva a interpretarla in questo modo: «Il Paradiso, o Regno dei Cieli, non sarebbe altro che "il compimento di ciò che ormai (esse) sono": nient'altro che un miserabile e comunque tutto umano stato d'animo, o poco più. Tutto qui? In cosa consiste questa "conduzione a compimento" di ciò che peraltro esse già sono? Cosa aggiunge il "compimento" allo status già raggiunto? E possibile che anche su questa indecifrabile e insensata perifrasi nessuno abbia sollevato una qualche perplessità?» (p. 7).
    No, caro professore, nessuna perplessità su quella perifrasi che solo lei vede come indecifrabile e insensata. A noi, per esempio, fa subito venire in mente l'espressione gratia est semen gloriae.
 
    Giunti a pagina otto, riteniamo che ce ne sia già abbastanza per interrompere l'analisi e affermare che gli «argomenti finto-convincenti, finto-esaustivi e finto-penetranti» (p. 7) non sono quelli di Benedetto XVI, ma del suo accusatore.
 
    Per quanto riguarda il resto dell'articolo, esso prosegue sulla stessa falsariga di elucubrazioni basate sul nulla per l'oggettiva incapacità dell'autore di leggere con obiettività i testi. A nostro parere, al prof. Radaelli è mancata qui completamente la necessaria "benevolenza interpretativa". Se ci fosse stata, infatti, almeno le cantonate più macroscopiche avrebbe potuto evitarle.
 
    Aggiungiamo soltanto, per il lettore che volesse cimentarsi nella lettura di tutto l'articolo, un aiuto per interpretare correttamente l'esegesi ratzingeriana a 1Cor 3.
    Per Radaelli è «un'esegesi tutta nuova e tutta e solo sua [...]» (p. 13) «che definire inadeguata [...] è troppo poco [...] Chi glielo dice, all'antico der Profesor, che Dio stesso, allorché lui si presenterà davanti al Suo Trono, potrebbe trovare questa sua esegesi [...] rozza, goffa, maldestra, a meno di non considerarla poi, tutt'al contrario, fin troppo astuta?» (p. 20).
    Noi, per evitarvi i pericolosi voli pindarici radaelliani, vi invitiamo a porre attenzione a questo passaggio: Se siamo rimasti saldi su questo fondamento [Gesù Cristo] e abbiamo costruito su di esso la nostra vita, sappiamo che questo fondamento non ci può più essere sottratto neppure nella morte.
 
 
P.S.: Non abbiamo letto il testo Al cuore di Ratzinger ma, visto il modus operandi del professore nel criticare così tendenziosamente Benedetto XVI, ci meraviglia che una persona teologicamente preparata come mons. Viganò ne abbia citato positivamente il lavoro, senza alcun distinguo, nella sua recensione al libro di Massimo Viglione "Habemus Papam?". Se è infatti vero che la tesi di Cionci getta «inquietanti ombre sulla onestà e la correttezza di agire di Benedetto XVI»[qui], non meno ombre (senza fondamento) getta il prof. Radaelli.

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