31 dicembre 2022

Ecclesiologia

 

LA CHIESA È SANTA O È PECCATRICE?

OPPURE SANTA E PECCATRICE?


    Oggi, quando si fa una qualsiasi domanda di fede ad un presunto cattolico, l'inizio della risposta è quasi invariabilmente la stessa: "secondo me", "io penso", "la mia esperienza mi insegna", "il mio rapporto con Dio mi dice", ecc.

    Ma se la domanda riguarda la fede (e che la Chiesa rientri tra le realtà di fede dovrebbe essere evidente considerato che la troviamo all'interno del "Credo"), non sembra che la metodologia appropriata per trovare la giusta risposta sia quella di partire dai nostri pensieri, dai nostri ragionamenti, dalle nostre sensazioni. Sarebbe opportuno, infatti, partire dalla Rivelazione (Sacra Scrittura e Tradizione) e chiederci: cosa ci ha rivelato Dio a riguardo della Chiesa?

    Almeno noi cattolici dovremmo muoverci così. E, partecipando alla S. Messa tutte le festività, non dovremmo avere difficoltà a rispondere immediatamente che la Chiesa è santa. Noi, infatti, professiamo di credere la Chiesa, una santa cattolica e apostolica. Così come la Chiesa è una realtà da credere, così lo sono anche le sue note.

    Aprendo poi il Catechismo, leggiamo (n. 811):

    «Questi quattro attributi, legati inseparabilmente tra di loro, indicano tratti essenziali della Chiesa e della sua missione. La Chiesa non se li conferisce da se stessa; è Cristo che, per mezzo dello Spirito Santo, concede alla sua Chiesa di essere una, santa, cattolica e apostolica, ed è ancora lui che la chiama a realizzare ciascuna di queste caratteristiche».

    Si parla di "tratti essenziali", vale a dire che non possono non esserci. Tali tratti, la Chiesa li riceve dal suo "Capo" e "Sposo". La Chiesa è di Cristo e riceve da lui l'unità, la santità, la cattolicità e l'apostolicità. Ma essa, pur essendo già una, santa, cattolica e apostolica, deve esserlo sempre di più. La Chiesa è dunque già, ma non ancora pienamente.

    Queste note, in realtà, nelle loro manifestazioni storiche possono in qualche modo essere viste anche da chi non ha fede, ma per loro sarà un po' come il vedere e l'ammirare dall'esterno le vetrate istoriate di una bella cattedrale. Per gustarne appieno la meravigliosa policromia occorre entrarvi dentro. Solo da lì, infatti, se ne può vedere l’autentico splendore e tutta la bellezza dei colori. Bisogna dunque essere all’interno del "mistero ecclesiale" per poterne percepire tutta la bellezza e riconoscerla proveniente dalla sua origine divina.

    «Cristo - leggiamo nella Lumen gentium - ama la Chiesa come sua sposa [...] E poiché «in lui abita congiunta all'umanità la pienezza della divinità» (Col 2,9), egli riempie dei suoi doni la Chiesa la quale è il suo corpo e la sua pienezza (cf. Ef 1,22-23), affinché essa sia protesa e pervenga alla pienezza totale di Dio (cf. Ef 3,19)» (n. 7).

    La Chiesa è quindi in cammino verso la pienezza.

    Ora, il fatto di essere in cammino vuol forse dire che oltre ad essere santa è anche peccatrice e soltanto alla fine del percorso sarà soltanto santa?

    Innanzitutto ricordiamo che l'essere in cammino non implica necessariamente l'essere peccatrice. Anche della Madonna, infatti, si dice che sulla terra è stata in cammino:  

    «anche la beata Vergine avanzò nella peregrinazione della fede» (LG, n. 58).

    Eppure non c'è dubbio che Maria non è mai stata toccata dal più piccolo peccato. La domanda è allora la seguente: anche la Chiesa, come Maria, è immune da ogni peccato?
 
    Per svolgere l'argomento ricorriamo ad un bel testo del compianto card. Giacomo Biffi che, oggi più che mai, merita di essere conosciuto e gustato: La sposa chiacchierata. Invito all'ecclesiocentrismo, Jaca Book, Milano 1998.
 

    «Si può, - scrive l'arguto presule - senza violare la verità di Dio, assegnare alla Chiesa lo stato di "peccatrice"? E, d'altra parte, si può continuare a ritenerla "santa", senza incorrere in una severa bocciatura da parte della teologia contemporanea (che sarebbe sventura, tutto sommato, sopportabile) e senza venir smentiti dalla storia (cosa che ci darebbe invece qualche inquietudine)?

 

"Chiesa peccatrice": quasi un dogma mondano

    Che la Chiesa debba essere ritenuta "peccatrice" è una specie di dogma indiscutibile della cultura mondana.

    L'idea, tra l'altro, corrisponde a una accentuata tendenza dell'uomo di oggi, che è incline a trasferire la sede della responsabilità (e quindi della colpevolezza) dal "cuore" (secondo la parola di Gesù) e dal comportamento dei singoli (come già aveva insegnato Ezechiele) alla "società" e alle sue strutture.

    È uno schema mentale molto vantaggioso per le storiografie ideologiche di ogni colore: essendo il solo organismo che rimane presente in ogni epoca, coinvolto nelle vicende di tutti i secoli, la Chiesa si presta a essere caricata di ogni debito e di ogni colpa. Altri imputati non compaiono al "tribunale della storia": sono tutti latitanti, anche perché nessuno è sopravvissuto almeno nella sua identità sostanziale. Se non ci fosse la Chiesa, il "tribunale della storia" - che molti, in mancanza d'altro, ritengono supremo - non saprebbe chi giudicare. [...]

 

"Chiesa peccatrice": convinzione di molti cristiani

    Anche a molti cristiani - bisogna riconoscerlo - piace l'idea di una Chiesa peccatrice. C'è in molti di essi quasi un "amore deluso", che si traduce in un atteggiamento di accusa permanente. I singoli hanno soltanto "istanze" legittime; la Chiesa ha il demerito di non averle soddisfatte nel passato e di non soddisfarle nel presente.

    Ma sono altresì numerosi coloro che, pur nutrendo un sincero amore per la Chiesa e vivendo con lealtà la loro dedizione ecclesiale, non per questo avvertono qualche difficoltà a parlare dei "peccati della Chiesa". Così si riesce meno sgraditi agli "altri", siano miscredenti siano appartenenti a religioni e ad aggregazioni cristiane diverse.[1]

    Il cattolico che si colloca in questa schiera ha poi anche il beneficio di essere stimato "aperto" e perfino "coraggioso": gli viene riconosciuto l'audacia e il non conformismo di dire cose che dicono tutti.[2]

 

"Sed contra": il linguaggio della tradizione

    Tale persuasione non riceve nessuna conferma dal linguaggio cristiano di sempre, che tanto nei discorsi più comuni quanto nei documenti più solenni, parla sempre di "Chiesa santa", mentre non c'è alcuna professione di fede che ci propone di credere in una "Chiesa peccatrice".
    L'aggettivazione della Chiesa è andata progressivamente arricchendosi: nelle forme più antiche del Simbolo Apostolico è detta unicamente "santa"; nelle forme occidentali più recenti "santa" e "cattolica"; nelle recensioni orientali "una", "santa" e "cattolica".
    Infine col Credo niceno-costantinopolitano si arriva alle quattro "note" classiche: "una, santa, cattolica e apostolica".
    Dall'esame di questi antichi testi possiamo raccogliere questi dati:
    - negli elenchi delle verità fondamentali da credere la Chiesa è generalmente ricordata con l'appellativo di "santa", il primo che compare e quello che non è mai tralasciato;
    - non c'è mai il minimo accenno a qualche relazione con la colpa;
    - se mai una relazione è indicata dalla costante menzione, immediatamente susseguente a quella della Chiesa, della "remissione dei peccati": dalla Chiesa proviene non la colpa, ma la sua cancellazione».
 
    Facciamo notare che questo vale anche per l'ultimo Concilio Ecumenico. Nei suoi documenti, infatti, più volte viene usata l’espressione "Chiesa santa" e mai quella di "Chiesa peccatrice".    
    Di seguito riportiamo alcuni dei numerosi utilizzi della prima espressione:

    LG 8: «Cristo, unico mediatore, ha costituito sulla terra e incessantemente sostenta la sua Chiesa santa»;
    LG 18:
«Gesù Cristo, pastore eterno, ha edificato la santa Chiesa»;
    LG 32:
«La santa Chiesa è, per divina istituzione...»;
    LG 39: «La Chiesa, il cui mistero è esposto dal sacro Concilio, è agli occhi della fede indefettibilmente santa»;
    LG 54: «Maria [...] nella Chiesa santa occupa, dopo Cristo, il posto più alto e il più vicino a noi»;
    SC 4:
«il sacro Concilio, obbedendo fedelmente alla tradizione, dichiara che la santa madre Chiesa considera…»;
    UR 2:
«Per stabilire dovunque fino alla fine dei secoli questa sua Chiesa santa, Cristo affidò…».[3]
     
    Questo possiamo anche chiamarlo "ecclesiocentrismo", ma non certo "ecclesiolatrìa". L'ecclesiocentrismo, infatti, si può armoniosamente comporre con un corretto cristocentrismo, perché «il "Cristo totale" è la Chiesa (cf. 1Cor 12,12), che perciò con Cristo, in Cristo e subordinatamente a Cristo non può che essere al "centro" dell'intera creazione. È ciò che con ammirevole sintesi insegna san Paolo, quando dice che "essa è il corpo di lui, la pienezza di colui che è il perfetto compimento di tutte le cose (Ef 1,23)».
    «Curiosamente, c'è un caso di "ecclesiolatrìa" che affligge talvolta proprio i più appassionati censori dell'ecclesiocentrismo; ed è la "sinodolatrìa". In questa aberrazione inconsciamente incappano coloro che tanto enfatizzano il Concilio Vaticano II da ritenerlo in pratica quasi un organo della Rivelazione: solo da questa recente esperienza di Chiesa ci sarebbe stato restituito finalmente il cristianesimo vero. 
    Invece non bisogna mai dimenticare che solo Dio "rivela"; e ha già tutto rivelato con la missione del suo unico Figlio. Ed è una Rivelazione storicamente situata, che avviene in un dato momento e poi si chiude; sicché ad essa si può accedere non in virtù di rivelazioni nuove, ma con la "tradizione", cioè la conservazione lungo i secoli di ciò che ci è stato comunicato».
 
 

La santità della Chiesa nel Nuovo Testamento

    «A quale linguaggio ci atterremo? A quello che ci è proposto dai documenti della Tradizione o a quello che oggi è invalso? Poiché l'argomento del contendere riguarda direttamente il disegno del Padre e la sua opera di salvezza, il metodo corretto sarà quello di ascoltare prima di tutto ciò che ci dice la divina Rivelazione.
    Due annotazioni si impongono subito. Nel Nuovo Testamento non c'è nessun imbarazzo a stigmatizzare i comportamenti reprensibili dei membri della comunità cristiana, quale che sia la dignità e la missione di cui sono investiti; ma quando si tratta della Chiesa come tale non c'è mai la minima sfumatura di deplorazione o di biasimo.
    La parola "ecclesìa" [...] è sempre circondata da un rispetto e da una venerazione che non è mai smentita.
    "Edificherò la mia Chiesa", dice Gesù nel celebre passo di Matteo: la Chiesa è dunque opera sua, anzi è "sua"; e non c'è da supporre che il Figlio di Dio sia un costruttore maldestro o un proprietario distratto o trascurato. Perciò "le porte degli inferi non prevarranno contro di essa" (cf. Mt 16,18).
    Gli Atti degli Apostoli riferiscono un loghion di Paolo, dove si parla della "Chiesa di Dio, che egli si acquistò con il sangue del suo proprio Figlio" (At 20,28)».
 
    In nota, il cardinale meneghino aggiunge che
  
    «proprio la consapevolezza della realtà trascendente della Chiesa mantiene acuta nell'animo di Paolo, anche dopo molti anni, la sofferenza per averla un tempo perseguitata: "Non sono degno di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio" (1Cor 15,9). Tale realtà trascendente gli si è rivelata nel suo stesso "scontro" con il Risorto, il quale si preoccupa in quel momento di manifestargli la sua connessione - anzi, la sua "quasi identificazione" - con il popolo dei credenti: "Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?" (At 9,3; 22,7; 26,15). La presenza nel libro degli Atti di ben tre narrazioni dell'episodio, che in questa frase trova il suo cuore e il suo senso, ci dice quale importanza sia stata subito assegnata a questa esperienza fondamentale e fondante della vita di fede di Paolo».

    E continua:
 
    «Nella prima lettera a Timoteo si può rilevare la menzione della "Chiesa del Dio vivente, colonna e sostegno della verità" (cf. 1Tm 3,15).
    Nella prima lettera di Pietro non c'è il termine "ecclesìa". Eppure vi si trovano gli accenti più elevati e commossi, atti a ravvivare nei destinatari la gioia e la fierezza dell'appartenenza ecclesiale: "Voi siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa" (1Pt 2,9)».
 
    Pertanto, se veramente crediamo che la Chiesa è santa, anche noi dovremmo avvertire la gioia, la fierezza, l'onore di farne parte. Per usare le parole di Paolo (cf. Rm 5,1-2), ci "vanteremmo" di aver avuto accesso a questa grazia.
    Se invece pensiamo che la Chiesa non sia santa ma colpevole, peccatrice, una realtà verso la quale è bene prendere le distanze (Cristo sì, Chiesa no), allora è normale che ci vergogniamo di farne parte e proviamo imbarazzo ad essere a lei troppo strettamente associati.


    E questo tanto più oggi, in un'epoca in cui
«c'è spesso l'impegno – quasi un programma – a mettere in cattiva luce la realtà cattolica, ad assimilarla alle altre aggregazioni cristiane e persino alle altre forme di religione, o addirittura a giudicarla perdente in questi confronti».

    «A conclusione di questa rapida rassegna collochiamo una breve dossologia di san Paolo, che è tanto più significativa quanto più appare del tutto occasionale nel contesto: "A lui (a Dio Padre) la gloria nella Chiesa e in Cristo Gesù per tutte le generazioni, nei secoli dei secoli! Amen" (Ef 3,21). "Nella Chiesa e in Cristo Gesù": è stupefacente la naturalezza con cui vengono messi, per così dire, sullo stesso piano e sono presentati come un'unica ragione di gloria. Oseremmo dire che non si poteva - con più chiarezza e col minor numero di parole - alludere all'inclusione dell'ecclesiocentrismo nel cristocentrismo; che è il senso eminente e ultimo di tutto il nostro discorso.
 

La fallibilità dei membri della Chiesa

    Se la Chiesa è così "santa", dobbiamo dire che i membri della Chiesa sono senza debolezze e senza peccati? Certamente no, tanto è vero che nel Nuovo Testamento di rimproveri e di critiche ce n'è, si può dire, per tutti.
    Ce n'è per i cristiani di Tessalonica, che tendono all'ozio con la scusa dell'imminente venuta del Signore (cf. 1Ts 4,10-12; 2Ts 3,6-12). Ce n'è per i cristiani di Galazia [...] Ce n'è per i cristiani di Corinto [...] Ce n'è per un uomo "virtuoso e pieno di Spirito Santo" (cf. At 11,24) come Barnaba; e ce n'è per Pietro [...]
    È un elenco che si potrebbe arricchire; ma bastano questi cenni a rassicurarci che dalla verità della Chiesa "santa" la parola di Dio non deduce affatto che i suoi membri, anche i più illustri e responsabili, siano al riparo da ogni valutazione negativa.
 

Alla ricerca di una composizione

    I due dati, ambedue indubitabili, devono essere armonizzati tra loro. Come fa a essere "santo" un organismo che si compone di uomini, tutti - chi più chi meno - contrassegnati dalla colpa?
    C'è chi pensa di sciogliere la questione facendo osservare che, mentre i peccati sono dei membri, la santità è nei mezzi di grazia di cui la Chiesa dispone. La Chiesa è santa e santificante, perché santa e santificante è la dottrina che custodisce, perché santi e santificanti sono i sacramenti che le sono affidati, perché sante e santificanti sono le istituzioni che la reggono e la compaginano, perché sante e santificanti sono le mete che essa addita alla volontà e all'agire dell'uomo.
    Il che è indubbiamente vero, ma non risolve adeguatamente il problema. La Chiesa - nel suo concetto più elementare -  è un popolo di persone: la santità deve trovarsi anche in coloro che in essa sono raccolti.
    Ora l'esistenza nella Chiesa di membri contaminati porta a due casi possibili: o i peccatori non hanno una vera appartenenza sostanziale (ma piuttosto un'appartenenza giuridica o sociologica); o, se restano nella Chiesa, la Chiesa oltre che santa dovrebbe essere detta anche "peccatrice".
    Nel primo caso, si arriverebbe a sostenere che nella Chiesa abbiano diritto di vera cittadinanza solo i "perfetti", i "puri", gli "illuminati". Ma così si ripeterebbe l'aberrazione antica degli gnostici o quella medievale dei "catari". In fondo, chi si scandalizza per le azioni riprovevoli degli uomini di Chiesa e non tollera che ciò possa avvenire, riproduce questa che è tra le più antievangeliche delle eresie.
    Nel secondo caso si dovrebbe parlare di Chiesa "peccatrice"; o quantomeno di Chiesa simultaneamente "santa e peccatrice". E molti oggi, trascurando quanto dice la parola di Dio, si attestano su questa posizione. La Chiesa, intesa così, non sarebbe una "communio sanctorum", bensì una "communio peccatorum" (come dice impavidamente il Küng, che coerentemente dovrebbe auspicare una modifica in tal senso del Simbolo Apostolico). O piuttosto sarebbe una peccaminosità "avvolta" dalla grazia di Dio: è la traduzione nell'ecclesiologia della formula "simul iustus et peccator" che, per i singoli, è stata proposta dai Riformatori; della quale però, almeno con questi contenuti, non c'è traccia nella parola di Dio.


"Casta meretrix"
 
    Ai nostri giorni molti pensano di aver trovato la soluzione in un "oxymoron" (espressione antinomica): la Chiesa è una "casta meretrix". Ricordato dal von Balthasar, il detto si è rapidamente diffuso; ed è così pittoresco e suggestivo che la più parte di coloro che se ne avvalgono si dispensa da ogni approfondimento concettuale e da ogni chiarificazione. Poiché, come dicono i Padri, è "casta meretrix", la Chiesa è santa e peccatrice insieme. "Come dicono i Padri": il ricorso all'argomento "ex auctoritate" supplisce ogni dimostrazione.
    C'è venuta l'idea di andare a vedere chi siano questi "Padri". E abbiamo trovato che - "salvo meliori iudicio" - nessuno usa mai questa espressione, se non sant'Ambrogio, nel quale essa si trova un'unica volta. È soltanto sua, sicché - per correttezza nei suoi confronti - bisognerebbe non citarla con un significato diverso da quello che egli le conferisce.
    Ambrogio si avvale di questo "oxymoron" nella sua meditazione su Rahab, la prostituta di Gerico. [...]
    Leggendo la spiegazione di Ambrogio, però, si vede chiaramente che "casta meretrix", lungi dall'alludere a qualcosa di peccaminoso e di riprovevole, vuole indicare - non solo nell'aggettivo, ma anche nel sostantivo - la perfetta santità della Chiesa; santità che consiste tanto nell'adesione senza tentennamenti e senza incoerenze a Cristo suo sposo ("casta") quanto nella volontà di raggiungere tutti per portare tutti a salvezza ("meretrix")».

    In nota, con la sua amabile ironia, il cardinale aggiunge:
 
    «Naturalmente non ci illudiamo che la pigrizia mentale possa consentire ai più di rettificare l'abbaglio e di persuadersi che "meretrix" attribuito alla Chiesa è in Ambrogio espressione non della colpa, ma della sua ansia di evangelizzare e di salvare».
 
 
La soluzione
 
    Proprio di qui si arguisce che la Chiesa è opera divina, attuazione nella storia dell'eterno progetto del Padre: dal fatto che un insieme di uomini peccatori costituisca un organismo senza peccato. Che radunando tante creature contaminate si dia vita a una realtà contaminata, questa non è difficile impresa: è ciò che riusciremmo a compiere noi, se la Chiesa fosse opera nostra. Riusciremmo perfino a costruire una Chiesa santa, aggregando uomini totalmente santi, supposto di trovarli in questa nostra terra polverosa. Ma che la Chiesa sia "ex maculatis immaculata", questa è davvero la meraviglia di Dio.
 
    Non per caso, aggiungiamo noi, il primo capitolo della Costituzione dogmatica Lumen gentium sulla Chiesa si intitola: "Il mistero della Chiesa".
 
    Ma non c'è contraddizione? No, risponde il cardinal Journet, che si rivela qui uno dei teologi più acuti e più "credenti". E sarà meglio che lasciamo a lui la parola.
    "Tutte le contraddizioni sono eliminate, se si capisce che i membri della Chiesa peccano, ma in quanto tradiscono la Chiesa: la Chiesa non è dunque senza peccatori, ma è senza peccato". "La Chiesa come persona prende la responsabilità della penitenza, non prende la responsabilità del peccato" [...] "Le sue frontiere, precise e vere, circoscrivono solo ciò che è puro e buono nei suoi membri, giusti e peccatori, assumendo dentro di sé tutto ciò che è santo, anche nei peccatori, e lasciando fuori di sé tutto ciò che è impuro, anche nei giusti. Nel nostro proprio comportamento, nella nostra propria vita, nel nostro proprio cuore si affrontano la Chiesa e il mondo, il Cristo e Belial, la luce e le tenebre". "La Chiesa divide dentro di noi il bene e il male: prende il bene e lascia il male. I suoi confini passano attraverso i nostri cuori".
 
    Non differente il pensiero di Paolo VI, riportato dal CCC al n. 827:

    «La Chiesa è santa, pur comprendendo nel suo seno dei peccatori, giacché essa non possiede altra vita se non quella della grazia: appunto vivendo della sua vita, i suoi membri si santificano, come, sottraendosi alla sua vita, cadono nei peccati e nei disordini, che impediscono l'irradiazione della sua santità. Perciò la Chiesa soffre e fa penitenza per tali peccati, da cui peraltro ha il potere di guarire i suoi figli con il sangue di Cristo e il dono dello Spirito Santo» (Paolo VI, Credo del popolo di Dio, 19).

 
 
Le critiche
  
    C'è molta allergia nel pensiero teologico contemporaneo verso questa prospettiva. Ed è curioso che sia motivata, più che da argomentazioni desunte dalla Rivelazione, da ragione di indole puramente filosofiche, o addirittura da preoccupazioni di "politica ecclesiastica".
    Se tutti i suoi membri sono peccatori - si dice - dove sta di casa questa Chiesa "santa"? Sta sospesa sopra le nostre teste a una distanza che le consente di non essere raggiunta dal polverone del mondo? È confinata con le idee platoniche? [...]
    Si diffida, come si vede, di questa soluzione perché la si ritiene frutto di un'ecclesiologia astratta, utopistica e magari sentimentale, o addirittura furbesca. [...]

    Qualcuno, per esempio, obietta che così si «introduce una separazione tra la chiesa [sic!] in sé e la condizione personale dei suoi membri».
    
    In realtà non è così, non si dà separazione tra la Chiesa in sé e la condizione personale dei suoi membri; semmai tra la Chiesa in sé e il peccato dei suoi membri (perché la condizione personale include anche la santità e certamente questa non è separabile dalla santità della Chiesa). Ma a ben vedere, non si dà separazione
nemmeno tra la Chiesa in sé e il peccato dei suoi membri. In qualche modo, infatti, la Chiesa è "toccata" dal loro peccato; anche se certamente non nella sua essenza, cioè non facendo sì che la Chiesa sia, come ritiene la "tradizione" protestante, nello stesso tempo santa e peccatrice. E questo perché la dottrina della Chiesa è nello stesso tempo sia rispettosa del mistero sia estremamente realista. Non esiste, perciò, nella sua dottrina, quella presunta separazione tra Chiesa in sé e condizione personale dei suoi membri, cosa che effettivamente ne farebbe una realtà astratta impalpabile.
 
    Ciò che la fede cattolica insegna, è che la Chiesa è realmente composta da noi tutti che ne facciamo parte e con tutto il nostro essere, con tutto quello che siamo.
 
    Se andiamo a vedere come si esprime la Lumen gentium, troviamo che la Chiesa è detta
«santa e insieme sempre bisognosa di purificazione» (n. 8); «già sulla terra è adornata di vera santità, anche se imperfetta» (n. 48); la luce del Cristo risplende sul suo volto, ma non pienamente (cf. n. 1)
 
    Dunque, non la Chiesa è santa e i suoi membri peccatori hanno bisogno di purificazione, ma “la Chiesa” è sempre bisognosa di purificazione; questo appunto perché non si dà separazione tra la condizione dei membri della Chiesa e la Chiesa stessa. Si dà distinzione, certamente, ma non separazione.

    Il peccato dei suoi membri, come già accennato, in qualche modo "tocca" la Chiesa nel senso che la offusca, non ne fa percepire appieno la bellezza (che è la bellezza di Cristo). Quando un membro della Chiesa pecca, è un po' come se gettasse del fango su di sé e quindi anche sulla Chiesa di cui,
con tutto il suo essere, è membro.
    Ecco perché la Chiesa «avanza continuamente per il cammino della penitenza e del rinnovamento. La Chiesa "prosegue il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio", annunziando la passione e la morte del Signore fino a che egli venga (cf. 1Cor 11,26). Dalla virtù del Signore risuscitato trae la forza per vincere con pazienza e amore le afflizioni e le difficoltà, che le vengono sia dal di dentro che dal di fuori, e per svelare in mezzo al mondo, con fedeltà, anche se non perfettamente, il mistero di lui, fino a che alla fine dei tempi esso sarà manifestato nella pienezza della luce» (n. 8).
 
    In definitiva, noi parliamo di santità della Chiesa e nella Chiesa, mentre parliamo di peccato nella Chiesa, ma non della Chiesa. Questa è la distinzione.

    Dunque, dovrebbe essere ormai chiaro che non si può parlare di "Chiesa peccatrice".
 
    Ma di "Chiesa dei peccatori" si può parlare?
    Nemmeno, perché non si fa parte del corpo di Cristo per i peccati (che se non ci fossero sarebbe molto meglio); e poi parlare di Chiesa dei peccatori evoca l’idea malsana di una giustificazione semplicemente imputata dall’esterno.

    Se proprio si vogliono accostare i termini, allora possiamo farlo parlando di "Chiesa per i peccatori".

    Nel "Credo" diciamo che Gesù Cristo per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo; così la Chiesa, che ne continua la missione, è per noi peccatori, per la nostra salvezza.
    E «come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa è chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza» (LG, n. 8). 
 
    Per la sua unione a Cristo, dunque, la Chiesa non soltanto è santa ma, per mezzo di lui e in lui, santificante. La Chiesa è santa e santificante! È per questo, come ben ricorda Vittorio Messori, che «non sono i cristiani (nemmeno i Papi) che fanno santa la Chiesa; ma è la Chiesa che fa santi i cristiani. Con i sacramenti, certo. Ma anche col preservare intatto il "deposito della fede": cioè, la Verità».[4]
 
 
 Accordo con sant'Ambrogio

    «La riflessione del cardinal Journet è omogenea anche col pensiero di sant'Ambrogio, autore e responsabile dell'attribuzione alla Chiesa di "casta meretrix". Ci accontentiamo di riferire qui alcune sue frasi.
    "Non in sé, o figlie, non in sé - ripeto - o figlie, ma in noi la Chiesa è ferita" (De virginitate 48).
    "Tutta la Chiesa prende su di sé il carico del peccatore, e alla sua sofferenza doverosamente partecipa col pianto, con la preghiera, col dolore" (De paenitentia I, 81). [...]
    "La Chiesa... giustamente prende la figura della peccatrice, perché anche Cristo assunse l'aspetto del peccatore" (In Lucam VI, 21).
 
 
Il parere degli uomini di Dio
 
    Più che il parere di una teologia un po' desolata, val meglio quello degli uomini di Dio; i quali - se sono veramente tali - hanno gli occhi giusti per percepire la bellezza della Sposa: una bellezza esotica, perché non corrisponde ai canoni dell'estetica terrena; ma una bellezza autentica, che piace al Re (cf. Sal 45,12) e a quelli che condividono i gusti del Re.
    Valga per tutti l'insegnamento del Beato Josemaría Escrivá. "Se amiamo la Chiesa, non sorgerà mai dentro di noi l'interesse morboso di presentare come colpe della Madre le miserie di alcuni suoi figli. La Chiesa, Sposa di Cristo, non ha motivo di intonare alcun mea culpa. Noi invece sì: questo è il vero 'meaculpismo', quello personale, e non quello che infierisce contro la Chiesa, indicando ed esagerando i difetti umani che, in questa Madre santa, derivano dalle azioni che vi compiono gli uomini, fin dove gli uomini possono arrivare, ma che non giungeranno mai a distruggere - anzi neppure a toccare - quella che è la santità originaria e costitutiva della Chiesa... Nostra Madre è santa, perché è nata pura e continuerà a essere senza macchia per l'eternità. Se qualche volta non riusciamo a intravedere la bellezza del suo volto, siamo noi a doverci pulire gli occhi; se notiamo che la sua voce non ci aggrada, curiamo la durezza delle nostre orecchie che ci impedisce di cogliere, nel loro tono, i richiami del Pastore amoroso. La nostra Madre è santa, della santità di Cristo, a cui è unita nel corpo - che siamo tutti noi - e nello spirito, che è lo Spirito Santo, che dimora nel cuore di ognuno di noi se ci conserviamo nella grazia di Dio"».

 

 

 

SINTESI CCC (nn. 823-829)

    La Chiesa «è indefettibilmente santa [...] e i suoi membri sono chiamati "santi" (Cf At 9,13; 1 Cor 6,1; 16,1 (n. 823). Non solo è santa, ma, per mezzo di Cristo a cui è unita, è «anche santificante» (n. 824). Sebbene la sua santità sia vera, è però imperfetta (cf. n. 825). Nei suoi membri, infatti, «la santità perfetta deve ancora essere raggiunta» (n. 825).

    «Mentre Cristo [...] non conobbe il peccato, ma venne allo scopo di espiare i soli peccati del popolo,  la Chiesa che comprende nel suo seno i peccatori, santa e insieme sempre bisognosa di purificazione, incessantemente si applica alla penitenza e al suo rinnovamento. [...] La Chiesa raduna dunque peccatori raggiunti dalla salvezza di Cristo, ma sempre in via di santificazione» (n. 827).

    Dove la Chiesa ha già raggiunto la perfezione è nella beatissima Vergine Maria: «in lei la Chiesa è già tutta santa» (n. 829).

 

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[1] Il card. Biffi nota anche che «ciò che nella Sacra Scrittura non c’è, ed è invece presente largamente nella mentalità dei cristiani contemporanei, è l’idea che dal “mondo” la Chiesa possa essere illuminata e i discepoli di Gesù possano dal “mondo” essere guidati a salvezza o almeno spiritualmente arricchiti».

[2] Un curioso indizio della diffusa volontà di "ridimensionare" la Chiesa nell'opinione comune è dato dal proposito - fermo e vigile in molti autori, anche cattolici, e in diverse case editrici, anche dirette da religiosi - di scriverne il nome costantemente con l'iniziale minuscola. La cosa colpisce particolarmente quando nella medesima pubblicazione e perfino nella stessa pagina si ritrovano poi scritte con la maiuscola, per esempio, Consiglio Presbiterale, Azione Cattolica, Codice di Diritto Canonico, Camera del Lavoro, Settimane Sociali, ecc.

[3] Difficile, dunque, capire a quale fonte abbia attinto il "Santo Padre Francesco" quando, nell'ultimo discorso alla curia romana in occasione degli auguri natalizi, ha parlato di cadute della Chiesa: «Alcune cadute, anche come Chiesa, sono un grande richiamo a rimettere Cristo al centro».

[4] V. MESSORI, Pensare la storia. Una lettura cattolica dell'avventura umana, EP, Cinisello Balsamo (MI) 1992, p. 379.

28 dicembre 2022

G. K. Chesterton, Ortodossia (2)

 

 

G. K. CHESTERTON

 quando lo squilibrio era il contrario dell'equilibrio


    «È il misticismo che mantiene gli uomini sani di mente: finché avete il mistero, avete la salute; distrutto il mistero, si crea la morbosità. [...] Tutto il segreto del misticismo è questo: l'uomo può capire tutto con l'aiuto di quello che non capisce. Il logico morboso vuol vedere chiaro in ogni cosa, col bel risultato di rendere ogni cosa inesplicabile. Il mistico lascia qualche cosa nel mistero, e così gli diventa chiaro tutto il resto. [...] La sola, fra le cose create, che non possiamo guardare, è quella nella cui luce vediamo tutte le altre».


   «Ciò di cui soffriamo oggigiorno è di una umiltà fuori posto. La modestia si è spostata dall'organo dell'ambizione a quello della convinzione, dove non è stata mai concepita di essere. Un uomo ha diritto di dubitare di se stesso, non della verità; questa proposizione è stata esattamente rovesciata».

 

    «Le più caratteristiche delle filosofie attuali non solo hanno un tocco di follia, ma anche un tocco di follia suicida. Colui che non sa fare altro che mettere tutto in dubbio ha battuto la testa contro i limiti del pensiero umano; e se l'è rotta».


 «Di tutte le forme concepibili di illuminazione, la peggiore è quella che questa gente chiama Luce interiore. Di tutte le orribili religioni, la più orribile è l’adorazione di questo Dio interiore. Chi conosce qualcuno, sa in che senso può agire; chi conosce qualcuno del Centro del Pensiero superiore saprà come in pratica funzioni. Che Jones adori il dio dentro di sé, finisce per significare, in ultima analisi, che Jones deve adorare Jones».


    «Tutto il cristianesimo si concentra in un uomo al bivio. Le vaste e superficiali filosofie, le grandi sintesi menzognere, tutte parlano di epoche, di evoluzione e di sviluppi finali. La vera filosofia si preoccupa dell’istante. L’uomo prenderà questa o quella strada? Non c’è altro da pensare, se vi piace pensare.

    Pensare agli eoni è abbastanza facile; ognuno può pensarvi. Solo l’istante è veramente terribile, e appunto perché la nostra religione l’ha intensamente sentito, nella letteratura ha parlato soprattutto delle battaglie e nella teologia soprattutto dell’inferno».


    «Uomini che cominciano a combattere la Chiesa per amore della libertà e dell’umanità finiscono per gettare via anche la libertà e l’umanità, pur di combattere la Chiesa».


    «I paesi d’Europa rimasti sotto l’influenza dei sacerdoti sono precisamente quelli dove ancora si canta, si danza, e ci si mettono vestiti colorati e l’arte vive all’aperto. La dottrina e la disciplina cattolica possono essere dei muri, ma sono i muri di un parco di giochi. Il cristianesimo è la sola cornice in cui sia conservata la gioia del paganesimo. Immaginiamoci dei fanciulli che stanno giocando sul piano erboso di qualche isola elevata sul mare. Finché ci fu un muro lungo il bordo della scogliera, essi potevano sbizzarrirsi nei giochi più sfrenati e fare di quel luogo la più rumorosa delle nursery. Ma i muri sono stati abbattuti, lasciando il nudo pericolo del precipizio. I fanciulli non sono caduti, ma i loro amici, al ritorno, li hanno trovati rannicchiati e impauriti nel centro dell’isola, e il loro canto era cessato».


    «La cosa più assurda che possa esser detta della Chiesa è proprio questa che abbiamo sentito dire. Come si può sostenere che la Chiesa desidera riportarci indietro alle età oscure? La Chiesa fu la sola che ce ne ha portato fuori».



27 dicembre 2022

G. K. Chesterton, Ortodossia (1)

 

G. K. CHESTERTON

 quando lo squilibrio era il contrario dell'equilibrio


    «Sentivo che un forte argomento contro il Cristianesimo consisteva nell'accusa che ci fosse qualche cosa di timido, di pretesco, di non-virile in tutto ciò che si chiama "cristiano", specialmente nel suo atteggiamento riguardo alla resistenza e alla lotta. [...] 

    Queste cose che avevo letto le credevo e, se non avessi letto altro, avrei continuato a crederci. Ma lessi qualcosa di molto diverso: voltai la pagina del mio manuale agnostico e anche il cervello si capovolse.

    Ora scoprivo che bisogna odiare il cristianesimo non perché è troppo poco battagliero, ma perché lo è troppo: il Cristianesimo (a quanto pareva) era la madre delle guerre; il Cristianesimo aveva sommerso il mondo con il sangue. Ero arrabbiato coi cristiani perché non erano stati mai arrabbiati; ora mi si diceva di essere in collera con loro perché la loro collera era stata la più enorme e orribile cosa della storia umana; questa collera aveva inondato la terra e oscurato il sole. Quelli che rimproveravano al Cristianesimo la mansuetudine e la non-resistenza dei monasteri erano gli stessi che gli rimproveravano anche la violenza e il valore guerresco dei crociati. In un modo o nell'altro, era colpa del povero cristianesimo se Edoardo il Confessore non aveva combattuto e Riccardo Cuor di Leone lo aveva fatto. [...] Che poteva significare tutto questo? Che cosa era questo Cristianesimo che sempre vietava la guerra e sempre generava nuove guerre? [...] La forma del Cristianesimo diventava più bizzarra ad ogni istante». [...]

    Sembrava non tanto che il Cristianesimo fosse così malvagio da riunire in sé tutti i vizi, quanto piuttosto che ogni bastone fosse buono per bastonare il Cristianesimo. [...]

    Io volli essere onesto allora, come voglio esser onesto ora; perciò non conclusi che l'attacco al Cristianesimo fosse infondato. Conclusi soltanto che se il Cristianesimo era sbagliato, era davvero molto sbagliato. Tante ostili ripugnanze possono concentrarsi su di una cosa, ma dev'essere una cosa veramente strana e originale. [...]

    Una istituzione storica che non è mai andata diritta è certo altrettanto miracolosa che un'istituzione che non possa andare storta. La sola spiegazione che mi si presentava subito alla mente era che il Cristianesimo non venisse dal cielo ma dall'inferno. In realtà, se Gesù di Nazareth non era il Cristo, doveva essere l'Anticristo. E poi, in un momento di tranquillità, uno strano pensiero mi colpì come un fulmine a ciel sereno. S'era improvvisamente presentata al mio spirito un'altra spiegazione. [...]

    Insomma, questa cosa straordinaria non sarebbe che la cosa ordinaria: la cosa normale, il centro; tutto sommato, il cristianesimo sarebbe sano e tutti i suoi critici sarebbero pazzi, in vari modi. [...]

    Nondimeno, lo sentivo bene, non poteva essere del tutto vero che il Cristianesimo fosse semplicemente sensato e stesse nel mezzo. C'era realmente in esso un elemento di enfasi e anche di frenesia che giustificava le superficiali critiche degli anticlericali.

    Poteva essere saggio, io cominciavo a crederlo sempre di più, ma non di una saggezza come la intende il mondo: non era soltanto temperato e rispettabile. [...] Allora s'aprì la parte più difficile e più interessante del processo mentale, e cominciai a seguire oscuramente questa idea attraverso i concetti enormi della nostra teologia. L'idea era quella che ho accennato parlando dell'ottimista e del pessimista: che non vogliamo un amalgama o un compromesso, ma entrambe le cose al massimo della loro energia, amore ed ira entrambi brucianti. [...] La teologia ortodossa ha specialmente insistito su questo: che Cristo non è un essere diverso da Dio e dall'uomo, come un elfo, e nemmeno mezzo umano e mezzo no, come un centauro, ma tutte e due le cose insieme e tutte e due per intero, vero uomo e vero Dio. Ed ora permettetemi di delineare questa nozione, così come l'ho scoperta.

    Tutti gli uomini sani vedono che la salute è una forma di equilibrio: uno può esser pazzo e mangiare troppo, oppure essere pazzo e mangiare troppo poco. Alcuni moderni, in realtà, sono venuti fuori con vaghe idee di progresso e di evoluzione che tenderebbero a distruggere il meson o equilibrio aristotelico. Sembrano suggerire che noi dovremmo digiunare progressivamente, o continuare per sempre a mangiare colazioni sempre più abbondanti tutte le mattine. Ma la grande, lampante verità del meson resta in piedi per tutti gli uomini pensanti, e quella gente non ha sovvertito altro equilibrio, tranne il proprio. Dato per scontato che tutti dobbiamo conservare un equilibrio, quello che interessa è la questione del come questo equilibrio possa esser mantenuto. Questo è il problema che il paganesimo tentò di risolvere. Questo è il problema che io penso sia stato risolto, e risolto in modo stranissimo, dal cristianesimo. [...]

    Prendiamo l'esempio della modestia, dell'equilibrio fra il puro orgoglio e la pura prostrazione. Il pagano medio, come l'agnostico medio, direbbe che è contento di sé, ma non insolentemente compiaciuto, nel vedere che ci sono molti migliori e molti peggiori di lui, che i suoi meriti sono limitati, ma che gli pare di averne anch'egli. Insomma, camminerebbe con la testa alta; ma non necessariamente col naso all'insù. 

    [... Ora,] la miscela di due cose è una diluizione delle due cose: nessuna delle due è presente nella sua piena forza né contribuisce con tutto il suo colore. Questo cauto orgoglio non solleva il cuore come la lingua delle trombe; non potete per esso andare vestiti d'oro e di cremisi. D'altro canto la blanda modestia razionalista non purifica l'anima col fuoco e non la rende chiara come il cristallo; non rende un uomo, come la stretta e pungente umiltà, piccolo come un fanciullo, che possa sedersi ai piedi dell'erba. Non gli fa alzare lo sguardo e vedere meraviglie. Così vanno perse sia la poesia della fierezza, sia la poesia dell'umiltà. Il cristianesimo ha cercato, con questo strano espediente, di salvarle entrambe.

    Separò le due idee e le esagerò entrambe. Per un verso l'uomo doveva essere più orgoglioso di quanto fosse mai stato prima; per un altro doveva essere più umile di quanto mai fosse stato. In quanto Uomo, sono la prima delle creature; in quanto uomo, sono il primo dei peccatori. Ogni umiltà che significasse pessimismo, che significasse una visione incerta o meschina del suo destino, doveva essere abbandonata. [...] Allo stesso tempo avrebbe coltivato l'idea dell'abietta piccolezza dell'uomo. [...]

    La Chiesa era precisa su tutti e due i punti: non si poteva presumere troppo poco di sé, non si poteva stimare troppo la propria anima. [...]

    Il vero problema è: Può il leone giacere con l'agnello e conservare ancora la sua regale ferocia? Questo è il problema che la Chiesa ha tentato di risolvere; questo il miracolo che ha raggiunto. [...]

    Quelli che dicono che il Cristianesimo ha scoperto la misericordia, lo sottovalutano. Chiunque potrebbe scoprire la misericordia: in effetti l'hanno scoperta tutti. Ma scoprire il modo di essere pietosi e anche severi, ciò significa scoprire una strana necessità della natura umana: nessuno pretende di essere perdonato per un peccato grosso come se fosse piccolo. [...] Chiunque può dire: "Né essere spavaldi né umiliarsi", e sarebbe un limite; ma il dire: "Qui potete essere spavaldi e qui potete umiliarvi" è stata un'emancipazione. 

    Questa è stato il fatto importante dell'etica cristiana: la scoperta del nuovo equilibrio. [...]

    Infine (e cosa più importante di tutte) questo fatto spiega quel che della storia del Cristianesimo resta inesplicabile a tutti i critici moderni. Voglio dire le mostruose guerre intorno a minuscole questioni di teologia, i terremoti di emozione per un gesto o per una parola. C'era la differenza di un centimetro, ma un centimetro è tutto quando si tratta di raggiungere un equilibrio.

    La Chiesa non può sgarrare di un capello se deve continuare il suo grande e audace esperimento di irregolare equilibrio. Una volta lasciato che una idea perda di potenza, un'altra idea diventerà troppo potente. Non è un gregge di pecore che il pastore cristiano deve guidare, ma una mandria di tori e di tigri, di ideali terribili e di dottrine divoranti, ognuna abbastanza forte per trasformarsi in una falsa religione e devastare il mondo. Ricordiamo che la Chiesa si affermò in particolare per le sue idee pericolose: fu una domatrice di leoni.

    L'idea della nascita dallo Spirito Santo, della morte di un Essere divino, del perdono dei peccati, dell'adempimento delle profezie, sono tutte idee che, come può vedere chiunque, al minimo tocco potrebbero trasformarsi in qualche cosa di blasfemo e di feroce. [...] Ma di questi bilanciamenti teologici parlerò più avanti; qui è sufficiente notare che se qualche piccolo errore fosse stato commesso nella dottrina, enormi ne sarebbero state le conseguenze sull'umana felicità.

    Una frase malamente formulata sulla natura del simbolismo avrebbe infranto tutte le più belle statue d'Europa. Una svista nelle definizioni poteva arrestare tutte le danze, poteva far avvizzire tutti gli alberi di Natale e rompere tutte le uova di Pasqua. Le dottrine devono essere definite entro limiti rigorosi, anche perché l'uomo possa godere delle generali libertà umane. La Chiesa deve usare tutte le cure, se si vuole che il mondo possa essere noncurante.

    Questo è l'eccitante romanzo dell'ortodossia. Taluni hanno preso la stupida abitudine di parlare dell'ortodossia come di qualcosa di pesante, di monotono e di sicuro. Non c'è, invece, niente di così pericoloso e di così emozionante come l'ortodossia.

    L'ortodossia è la saggezza, e l'esser saggi è più drammatico che l'esser pazzi. È l'equilibrio di un uomo che, dietro cavalli in folle corsa, pare si chini da una parte, sbandi da quell'altra, eppure, in ogni atteggiamento, conserva la grazia della statuaria e la precisione dell'aritmetica. La Chiesa, nei primi giorni, fu superba e veloce come un cavallo da guerra; ma è assolutamente antistorico dire che essa si limitò a perseguire furiosamente una sola idea, come un volgare fanatismo. Essa deviò a destra e a sinistra con tanta esattezza da evitare enormi ostacoli. Lasciò da un lato la grande mole dell'arianesimo, sostenuto da tutti i poteri del mondo che volevano rendere il Cristianesimo troppo mondano. Un momento dopo scartò per evitare la tendenza orientale, che l'avrebbe troppo allontanato dal mondo. [...]

    È facile esser pazzi; è facile essere eretici; è sempre facile lasciare che i tempi facciano di testa loro, difficile è conservare la propria testa. È sempre facile essere modernisti, come è facile essere uno snob. Cadere in uno dei tanti trabocchetti dell'errore e dell'eccesso, che, da una moda all'altra, da una setta all'altra, sono stati aperti lungo il cammino storico del Cristianesimo sarebbe stato semplice. È sempre semplice cadere; c'è un'infinità di angoli secondo cui si può cadere, c'è n'è uno soltanto sul quale restare in piedi. Perdersi in un qualunque capriccio, dallo Gnosticismo alla Christian Science, sarebbe stato ovvio e banale. Ma averli evitati tutti è una vorticosa avventura; e nella mia visione, il carro celeste vola sfolgorante attraverso i secoli, mentre le opache eresie sono disfatte e prostrate, e la fiera verità oscilla ma resta in piedi».



25 dicembre 2022

NATALE 2022

 

LE TRE NASCITE


    Un grande autore spirituale tedesco, Giovanni Taulero*, spiega che «si celebra oggi, nella santa cristianità, una triplice nascita, in cui ogni cristiano dovrebbe trovare gaudio e diletto così grandi da esultare per la gioia, in giubilo e amore, in gratitudine e letizia interiore; l’uomo che non sperimentasse in sé nulla di ciò, dovrebbe spaventarsene.

    La prima e sublime nascita avviene quando il Padre celeste genera il suo Figlio unigenito nell’essenza divina, nella distinzione delle Persone».

    Si tratta, cioè, della generazione eterna: Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero.

    «La seconda nascita, celebrata oggi, è quella in cui la fecondità materna, in assoluta purezza, toccò in sorte alla castità della Vergine».

    La Vergine Maria «diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia» (Lc 2,7 - Vangelo della prima Messa);
    I pastori «andarono dunque senz’indugio e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, che giaceva nella mangiatoia» (Lc 2,16 - Vangelo della seconda Messa);
    «E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14 - Vangelo della terza Messa).


    «La terza nascita avviene quando Dio ogni giorno e in ogni ora nasce veramente e spiritualmente in un’anima buona, mediante la grazia e per amore».

    E a proposito di questa terza nascita, Taulero dice che «ogni giorno e ogni istante deve avvenire, e infatti avviene, in ogni anima buona e santa, se essa vi si rivolge con attenzione e amore; perché, se vuol sperimentare in sé e prendere coscienza di questa nascita, le sono necessari il raccoglimento e la conversione di tutte le sue facoltà».

    Se ci si rifiuta di fare questo, automaticamente ci si pone contro di lui, contro il bambino, perché «chi non è con me è contro di me» (Mt 12,30).
    Non c’è una via di mezzo, una sorta di neutralità, ma o si è con lui o si è contro di lui. Non c’è niente di peggio, come ci ricorda il libro dell’Apocalisse, che non essere né freddo né caldo: «tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca» (Ap 3,15-16).

    «Che tutti dunque possiamo preparare in noi un posto per questa nobile nascita, così da diventare vere madri spirituali. In ciò Dio ci aiuti. Amen».







 
* Le citazioni sono tratte dal libro: Giovanni Taulero, I sermoni, Paoline 1997.

23 dicembre 2022

Riflessione "papale papale"

 

RIFLESSIONE SUL PAPATO 

SULLA "RINUNCIA" DI S.S. BENEDETTO XVI
 

«Alla sapienza è stata resa giustizia da tutti i suoi figli» (Lc 7,35)
 

    La riflessione che proponiamo è stata stimolata da un articolo del prof. Silvio Barbaglia (biblista),[1] che per questo ringraziamo, ed è basata sostanzialmente sui canoni 331-335 del CIC e sul cap. VII della Costituzione Universi Dominici Gregis (1996) di Giovanni Paolo II.[2]

    Don Silvio ha il merito, a nostro avviso, di indicare dove effettivamente ha origine «la differenza oggettiva d’utilizzo da parte di Papa Benedetto XVI dei due termini munus e ministerium all’interno della sua Declaratio»

    Questo "luogo" è «quell’unico documento che regola la disciplina dell’elezione del Romano Pontefice: la Constitutio Apostolica Universi Dominici Gregis».  

    Analizzando il testo, il nostro biblista nota correttamente che la questione «va posta nell’articolazione di non due ma quattro termini presenti nella Universi Dominici Gregis e funzionali a qualificare l’identità del successore di Pietro. I termini sono: munus, officium, potestas e ministerium».

    Ora, continua l'articolo, «l’intreccio dei primi tre termini riferiti al Romano Pontefice impedisce una separazione tra di loro [...] l’intersezione di questi vocaboli mostra da subito l’impossibilità di scinderli anche solo in linea teorica». Il che vuol dire che possono essere trattati «in senso sinonimico».

    E fin qui non ci sono problemi.

    A questo punto rimane da affrontare il quarto e ultimo termine: ministerium.

    «Ciò che appare interessante e istruttivo - scrive don Silvio - è il fatto che solo al termine dell’intera Costituzione, dedicata a normare la situazione di "Sede vacante" e la relativa elezione del Romano Pontefice, emerga il termine più difficile da comprendere e cioè: ministerium».

    Su questo termine, propone una sua «esegesi canonistica»: «Ministerium - così scrive - non indica genericamente l’idea di un servizio, come è nel significato stesso della parola, ma va a designare la categoria fondamentale posta in essere nell’incipit dell’esito di elezione valida del successore di Pietro, ovvero il suo inizio nell’assunzione del munus, nell’esercizio della sua potestas e nell’esplicitazione del suo officium: tutto ciò è contenuto nell’espressione "initio ministerii novi Pontificis". Pertanto, la semantica del termine ministerium qui, contestualmente, riassume in sé il munus, la potestas e l’officium, appare come un termine inclusivo dei tre tra loro inscindibili. Se vale quest’esegesi canonistica si apre una nuova possibilità nell’intendere la genesi della scelta delle due parole nella Declaratio di Papa Benedetto XVI, riferita esattamente all’uso che ne fa la Costituzione Universi Dominici Gregis, atta a presentare l’immissione in ruolo, l’inizio del ministero di un Romano Pontefice».

    Ora, a nostro avviso non vale quest'esegesi canonistica. O meglio: vale nel senso che è plausibile venga da quel testo, la Universi Dominici Gregis, «la genesi della scelta delle due parole [munus e ministerium] nella Declaratio di Papa Benedetto XVI», ma non la «chiave di lettura» che di quel testo viene proposta.

    Perché affermiamo questo?

    Semplicemente perché, se veramente il ministerium «riassume in sé il munus, la potestas e l’officium», ci saremmo dovuti aspettare quel termine al significativo n. 53 della Universi Dominici Gregis dove abbiamo la formula di giuramento. E invece vi leggiamo che ogni cardinale è chiamato a promettere che, se eletto Romano Pontefice, «si impegnerà a svolgere fedelmente il munus Petrinum di Pastore della Chiesa universale»

    Perché non scrivere allora ministerium, se veramente questo termine riassume gli altri tre e, come afferma in una disputa sul web, «ne rappresenta la forma piena»?[3]

    E poi, anche ammesso (e non concesso) che ministerium, munus, potestas, officium siano, come afferma Barbaglia, «trattabili in senso sinonimico», perché Benedetto XVI non ha usato la parola indicata dalla Universi Domini Gregis? Se veramente uno vale l'altro, perché usarne uno diverso?

    Sarebbe bastato formulare la rinuncia utilizzando il termine adottato dalla Costituzione, vale a dire munus, e la questione sulla validità della rinuncia non si sarebbe mai posta.

    Forse saremo un po' presuntuosi, ma non ci sembra così difficile preparare una rinuncia indubbiamente valida avendo davanti agli occhi una manciata di canoni del CIC e la Costituzione Universi Domini Gregis.

    Se poi la Costituzione la prendiamo in mano, vediamo che il titolo del cap. VII non è "initio ministerii novi Pontifici" ma, significativamente, "de acceptatione, proclamatione et initio ministerii novi Pontifici". E infatti tratta:

1) dell’accettazione del Pontificato (se l’eletto è già vescovo acquista la potestà e può esercitarla. Il n. 91 dice espressamente che può decidere di prolungare il conclave).
2) della proclamazione al popolo e
3) dell’inizio del ministero con
«l'Apostolica Benedizione Urbi et Orbi».

    Dicendo che l'eletto, dopo l'accettazione, «acquista di fatto la piena e suprema potestà sulla Chiesa universale e può esercitarla», implicitamente afferma che tale potestà non è sempre in esercizio.

    In altre parole, che il ministerium petrino presupponga il munus petrino è cosa ovvia, ma nulla impedisce che chi ha il munus, e quindi la potestà, per vari motivi non lo eserciti.

    Per rimanere al testo della Costituzione, se un papa dovesse morire subito dopo l'accettazione non avrebbe fatto un solo atto di ministero, sarebbe cioè morto prima che il suo ministero inizi. 

    Non capiamo, pertanto, come si possa affermare che

    «il "munus" in quanto tale va esercitato, l'esercizio sta nella natura del "munus" in quanto non si tratta di un titolo... e anche quando sembra non essere esercitato, lo è di fatto in quanto ha "potestas" sulla Chiesa universale... e come può essere sempre congiunto nella comunione con gli altri vescovi e con tutta la chiesa (CDC can. 333 § 2) se non nell'esercizio del suo "munus Petrinum"? Esercizio non vuol dire solo occuparsi di cose da fare ma permettere alla dimensione spirituale di agire ... questo è l'esercizio del "munus petrinum" attraverso lo Spirito, ma di esercizio sempre si tratta... Il titolo invece è "Romano Pontefice" o "Sommo Pontefice"...».[4]

    Lasciando da parte il fatto che soltanto in Dio essere e operare si identificano, se andiamo a leggere con attenzione il canone del CIC citato, si vede che al 333 § 1 si dice chiaramente che il Romano Pontefice «in forza del suo ufficio (sui muneris), ha potestà...» = ESSERE PAPA.
    Al successivo 333 § 2, invece, si passa all'esercizio dell'ufficio (in munere explendo)  = OPERARE IN QUANTO PAPA.

     In quest'ultimo paragrafo si premette che ciò che è sempre "in esercizio" è soltanto il munus, la potestà, che rende il Romano Pontefice «sempre congiunto nella comunione con gli altri Vescovi e anzi con tutta la Chiesa» (CIC, can. 333 § 2). L'esercizio di tale munus, tuttavia, cioè il modo di esercitarlo, sia personale sia collegiale, lo determina il Romano Pontefice secondo le necessità della Chiesa.

    Il CIC sembra molto chiaro. La potestà (se l'eletto è già insignito del carattere episcopale) la ottiene «dal momento dell’accettazione» (can. 332 § 1) e la «può sempre esercitare liberamente» (can. 331). E potremmo qui aggiungere che Benedetto XVI, “liberamente”, non la sta esercitando.

    Al can. 332 § 2 è poi scritto:
«Nel caso che il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio (Si contingat ut Romanus Pontifex muneri suo renuntiet) si richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non si richiede invece che qualcuno la accetti».

    Se quindi domandiamo: a cosa deve rinunciare il Romano Pontefice se vuole lasciare l’ufficio di supremo Pastore? Al ministero? No. Questo certo lo può fare liberamente, come sopra abbiamo visto, ma in tal caso rimarrebbe Sommo Pontefice.
    E perché la rinuncia sia valida, basta forse rinunciare in qualunque modo, anche raffazzonato, oppure la rinuncia al munus deve essere debitamente manifestata? La risposta è ovvia.

    Da notare, poi, che il papato non è un sacramento; e proprio per questo se uno rinuncia al papato non può più chiamarsi papa, perché del papato non rimane nulla dopo una valida rinuncia. Se il papato fosse un sacramento, invece, allora si potrebbe parlare di papa emerito così come si parla di vescovo emerito.

    Un vescovo, infatti, si dice emerito quando, una volta che viene accettata la sua rinuncia all'ufficio, non ha più la giurisdizione sulla sua diocesi. Di quest'ultima, però, mantiene il titolo di vescovo emerito.

    Ciò è possibile perché la consacrazione episcopale (l'essere vescovo) non viene meno venendo meno la giurisdizione sulla sua diocesi.

    Pertanto, quello che oggettivamente dice l'uso del titolo di papa emerito è che Benedetto XVI ha mantenuto l'essere papa (il munus Petrinum), ma è un papa che rinuncia all'esercizio attivo della sua potestà.

    Se così non fosse, se cioè si ritenesse che papa Benedetto abbia realmente rinunciato al papato, il titolo di "papa emerito" sarebbe ingiustificabile.

    Ma c'è di più.

    Benedetto XVI non si è limitato ad attribuirsi il titolo di "papa emerito" rifiutando espressamente quello, non problematico per un papa realmente rinunciatario, di "vescovo emerito di Roma". Se si fosse limitato a fare questo, infatti, potrebbe essere giustamente accusato, in base al can. 333 § 2 del CIC, di non adempire al suo ufficio di supremo Pastore della Chiesa. Sarebbe un papa, cioè, fuggito davanti ai lupi.

    E così egli ha anche aggiunto che in realtà non è fuggito dai lupi perché tale ministero in parte lo esercita ancora. Dunque, anche se in modo nuovo e inedito, sta adempiendo al suo ufficio.

    «Sono ben consapevole - così scrive nella declaratio - che questo munus, per la sua essenza spirituale, deve essere compiuto non solo con le opere e con le parole, ma non meno soffrendo e pregando. Tuttavia, nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministerium a me affidato. Per questo, ben consapevole della gravità di questo atto, con piena libertà, dichiaro di rinunciare al ministerio di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro, a me affidato per mano dei Cardinali il 19 aprile 2005».

    Benedetto XVI ha dunque liberamente rinunciato ad esercitare solo una parte del suo ministero, che possiamo chiamare attivo, e lo ha fatto con la consapevolezza chiara della gravità del suo atto.

    D'altronde, sappiamo con certezza che il card. Ratzinger ha accettato il papato con la consapevolezza che avrebbe dovuto combattere contro i lupi e assolutamente non fuggire, per paura, davanti a loro.[5]

    Non aggiungo altre note, ma, ormai prossimi al Natale, auguro a tutti ogni bene e l'invito a continuare a pregare umilmente il Padre nostro di non indurci in tentazione, cioè di non sottoporci alla prova, perché «le nostre forze sono limitate» Liberaci, Signore, dal male.

 


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[1] https://www.aldomariavalli.it/2022/12/20/il-codice-ratzinger-non-esiste/ 

[2] https://www.vatican.va/content/john-paul-ii/la/apost_constitutions/documents/hf_jp-ii_apc_22021996_universi-dominici-gregis.html

[3] https://gloria.tv/post/2wbY1ekgFmWsA6M826TqSMZfi

[4] Ivi.

[5] https://www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/homilies/2005/documents/hf_ben-xvi_hom_20050424_inizio-pontificato.html

 

 

Critica alla critica radaelliana

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